Sarno, Campania, maggio 1998. Si replica. L’ennesima alluvione con frana colpisce l’Italia e le voci si levano a lamentare il degrado nazionale. Si chiedono e danno aiuti, si scavano i morti, si ripara, si ricostruisce. Si ricostruisce. Si ricostruisce. Lì dove ci sono stati i morti, lì dove la memoria almeno dell’immediato dovrebbe dire di non costruire. Degli antichi romani sembra che l’unica eredità rimasta sia: costruire! Solo che erano molti meno e molto più coscienti del rispetto del territorio, erano ancora contadini e rispettavano la terra. Tanto che ancora oggi molte città e campagne sono organizzate sulla base della struttura che loro impostarono. Ma la nostra è una civiltà che si vanta di avere una percentuale bassissima di contadini, ormai trasformati in industriali della terra, spesso dimentichi delle tragedie del passato, che modificano, adattano i terreni alla lavorazione con le macchine e non il contrario. Vedere per credere; in Casentino la coltura del granturco ha fatto eliminare tutti gli argini che nella valle creavano casse di espansione per l’Arno, limitando i danni e controllando le acque che ora sono libere di correre nei campi, come i trattori.
Gli ultimi morti hanno fatto nuovamente ricordare le perdite subite per l’incapacità di memoria; giornali e televisioni hanno fatto a gara a ricordare le alluvioni e le frane dal Polesine in poi, cartine con mappe di zone franose compaiono dappertutto. Ma non si stampano nella testa di chi costruisce.
L’Italia è una frana, dal nord al sud, è un paese a rischio ma se ne dimentica al primo sole. Non solo. Si pretende che si intervenga rapidamente sulle montagne per imbrigliare l’acqua, per mettere in sicurezza il cemento di valle aggiungendone ancora a monte. Sindaci corrono perfino da ambasciatori stranieri (forse pensando al celebrato zio d’America) a chiedere fondi, soldi.
La disgrazia come fonte di denaro, non come riflessione sul perché. Le popolazioni locali paiono soprattutto chiedere che qualcuno gli dica che fare, dove costruire, dove vivere. Ma chi più di loro dovrebbe saperlo? Chi ha spogliato i boschi, interrato i lagni borbonici, canali costruiti allora conoscendo il terreno per controllare le acque e limitare i danni? Perché non conoscono la loro terra?
La società che essi hanno realizzato non ha memoria ed identità collettiva, quindi non ha futuro.
Una seria riflessione dovrebbe far capire che non si può avere un paese infestato dalla camorra e sicuro, in nessun senso. Il controllo del territorio esercitato da certi gruppi non è certo volto alla crescita ed allo sviluppo economico nel rispetto dell’ambiente, rispetto che solo può garantire sicurezza e continuità nel futuro. Ma non è certo tutta colpa della camorra.
I terreni vulcanici della zona di Sarno hanno mostrato che cosa può accadere con l’acqua ed è meglio non pensare a che cosa accadrà col fuoco. Quello stesso fuoco che ha generato quei terreni, che a suo tempo seppellì Pompei e cui viene offerta la possibilità di rinnovare l’esperienza su scala ben più ampia, avendo costruito in tutte le zone in cui nel passato, anche recente dato che l’ultima eruzione del Vesuvio risale al 1944, il vulcano ha diffuso la sua lava. L’allarme è stato dato da molti anni, proprio da coloro che si occupano di protezione civile, costretti sempre ad intervenire quando il danno è già stato fatto. La bagarre scoppiata tra i ministri per definire da chi dovesse dipendere il superministero di controllo del territorio, la dice lunga sull’atteggiamento degli uomini di governo. Dove servirebbe essenzialmente coordinazione e buon senso si vuole usare un potere centralizzato. Per non costruire un ospedale su quella che nei secoli è stata la valle di sfogo di una bocca eruttiva, come è stato fatto, è necessario un superministero?
Il Manifesto del 7 maggio titolava in prima pagina “Omicidio” riferendo il numero provvisorio dei morti e dispersi. Il 9 maggio lo stesso quotidiano ospitava nelle pagine interne un articolo di Piero Ostilio Rossi, della Sapienza di Roma, sulle colpe locali, che proponeva come più opportuno un titolo come “Suicidio”. Non si può parlare sempre delle colpe del “centro”, che certo ci sono. Nella stessa pagina un altro articolo titolava “Arno, trent’anni gettati al vento”; mancano i soldi per le opere, sono mancati, è vero, ma proprio non si poteva fare nulla senza denaro? Durante la manifestazione di Legambiente a Roma il 9 maggio, Mattioli, sottosegretario di questo governo, dichiarava in una intervista televisiva che in Versilia c’erano state manifestazioni di operatori economici contrari al vincolo di inedificabilità che si vorrebbe imporre alle zone invase dalle acque durante l’alluvione dello scorso anno. Tali operatori ritengono evidentemente che una nuova alluvione permetterebbe di chiedere nuovi fondi per danni ed innescherebbe un ulteriore crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo). Così è stato nel passato, perché cambiare? Chi muore giace e chi vive si dà pace. Saggezza popolare.
Denaro. E’ certo che sia necessario, ma non basta. Spesso ne occorrerebbe meno di quanto si chiede, perché le opere realmente efficaci e durature chiedono un rapporto diverso con la terra, e continuo. Più lavoro e meno investimenti. Una spesa ridotta ma protratta negli anni. Per coltivare un bosco, permettergli di crescere e reggere il terreno, ridurre la velocità delle acque ed assorbirle nel sottobosco. Per questo occorre tempo, lavoro. Fare uno sbarramento in cemento che crei un laghetto è molto più rapido, ma rischioso per l’accumulo di acque in quota e molto meno efficace. Lo sbarramento presto si riempie di terra e non rallenta più le acque. Occorre imparare a lasciare spazio alle acque per aumentare il tempo necessario a raggiungere il mare.
Più tempo, meno velocità meno danni. Più vantaggi. Se le acque scorrono lentamente permeano i terreni e rimpinguano le falde, le scorte di acqua cui attingere quando non piove più. Siamo un Paese che soffre per troppa e per poca acqua. Il rimedio è essenzialmente un ritorno al passato, almeno per i metodi usati per regimentare le acque.
Un ritorno al passato con le conoscenze e le capacità moderne, che pure ci devono portare a non sopravvalutare le nostre possibilità di controllo dei fenomeni naturali. Il denaro non può controllarli, perché esso è solo un mezzo di scambio tra gli uomini che sono di per sé limitati. Accettare i propri limiti permette di programmare un futuro affidabile. Il delirio di onnipotenza non porta da nessuna parte.
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