Ho avuto difficoltà ad accettare l’invito odierno a commemorare Padre Ernesto Balducci, a due anni dalla sua morte, in questo giorno di celebrazioni di ben altri eventi.
Non posso dire di essere stato suo intimo conoscente, anche se dalla fine degli anni settanta ho cominciato a seguire le attività della rivista Testimonianze da lui fondata 20 anni prima ed a seguire le omelie domenicali alla Badia Fiesolana. Quella sua Messa domenicale che lui mai mancava mi attrasse come luce evangelica a quel suo luogo di esilio, vicino, ma ancora fuori dalla Diocesi fiorentina da cui era stato espulso e dove è stato quasi a malincuore riaccolto al momento dei funerali. Posso quindi portare la mia esperienza di Balducci. Come ho scoperto meglio alla sua morte, sono solo uno dei tanti che si sono abbeverati alla fonte delle sue parole, e mi sono chiesto perché un Padre Scolopio, insegnante alle scuole superiori, riuscisse a parlare, a comunicare con tanta gente. Era un uomo di ampia cultura certo, ma troppi uomini di cultura riescono a non farsi capire, anzi nella facilità di parola, affogano ogni possibilità di comunicazione.
La risposta credo sia nel fatto che Balducci era un uomo libero.
Ricordo che quando morì, dopo alcuni giorni di agonia, con alcuni amici ci scoprimmo a pensare che era morto nel giorno a lui più consono, il giorno in cui l’Italia celebra la liberazione, la libertà, la speranza di una democrazia di eguali.
Tutti sanno che era molto impegnato sul piano civile, che era stato condannato per le prese di posizione sull’obiezione di coscienza al servizio militare, che era un animatore del movimento pacifista. Come si conciliano questi suoi impegni apparentemente profani, con il suo essere sacerdote?
La frattura è tale solo per chi conosce superficialmente il Cristianesimo, anzi tutte le grandi religioni che invitano a convertirsi. Perché la conversione richiede di cambiare, mettersi in crisi, porsi alla ricerca, senza altra certezza che la promessa di un Dio che non si presenta come onnipotenza, ma come il malfattore crocifisso, l’escluso, il debole, lo sconfitto.
Quindi un uomo dalla fede profonda come Balducci non può che divenire un uomo libero.
Libero dalla tentazione del potere, potere politico, spirituale, il potere del denaro.
Libero dalle ideologie, che spesso non sono altro che una forma del pregiudizio.
E’ questa libertà che gli ha permesso di ascoltare tutti coloro che lo avvicinavano, che gli ha permesso di andare incontro agli altri, a tutti quelli che sono altro da noi, che diciamo diversi.
E’ per questo che ha potuto, come Paolo di Tarso, farsi Giudeo con i Giudei, senza-Legge con i senza-Legge, debole con i deboli, e facendosi tutto a tutti comunicare con molti.
Senza questa libertà profonda non avrebbe potuto indicarci sempre il nuovo, aprirci alla speranza cogliendo ovunque il germoglio che spunta dal deserto quotidiano e che alimenta la nostra fiducia nel futuro.
Allora un simile uomo non poteva non essere pacifista, poiché solo la pace, la vera pace offre speranza di rispetto reciproco, di convivenza fraterna, di accettazione della nostra ed altrui diversità.
Io non so che cosa avrebbe detto o fatto Balducci in questi tristi momenti in cui vediamo risorgere dal passato i fantasmi nazifascisti, in cui a pochi chilometri dai nostri confini si ripete l’orrore dei campi di concentramento, della pulizia etnica.
Sono certo però che avrebbe usato tutta la sua intelligenza e tutte le sue capacità per cercare di farci uscire da questa realtà da incubo, ci avrebbe spinto a lottare per impedire questi crimini contro tutta l’umanità, per riportare il confronto entro i confini del rispetto del prossimo.
Una lotta pacifica ma dura per riaffermare ancora una volta quei valori di civile convivenza e democrazia che cinquanta anni fa spinsero tanta gente a lottare contro il nazifascismo, sia come partigiani, sia aiutando i vicini, ebrei o prigionieri che essi fossero.
Certo allora come oggi molti opprimevano e lottavano con l’oppressore, ma i semi di un mondo diverso esistevano e germogliavano. Anche oggi germogliano. Dai territori ex-Jugoslavi non arrivano solo notizie di torture, stupri, violenze, uccisioni. Intere popolazioni nel Kossovo, hanno scelto una linea di resistenza non violenta all’oppressore. Oppongono la loro dignità di esseri umani all’assassinio, al genocidio culturale e fisico. Abbiamo visto migliaia di persone mobilitarsi e rischiare la vita per aiutare i deboli, i feriti, gli affamati. Forse invano, forse la gramigna per ora è stata più forte dell’erba buona. Forse. Dipende da noi.
Dipende da noi contrastare la babele del linguaggio che porta a confondere gli aggrediti con gli aggressori, che trasforma il professare la religione islamica in una etnia, che finisce col porre tutto sullo stesso piano senza discriminare il grano dal loglio
Dipende da noi, qui e là, non dimenticare la storia, non dimenticarla per imparare da essa e costruire il futuro. Solo la forza delle radici può dare slancio alla pianta della libertà perché porti in frutto una umanità libera.
Certo la memoria di per sé non basta, senza riflessione può condurre semplicemente alla vendetta, a rinfocolare le separazioni, le differenze, gli odi.
Senza memoria però è impossibile capire la realtà in cui viviamo, capire chi siamo.
Non è un caso che Balducci sia stato un promotore delle celebrazioni della scoperta dell’America, di quelle celebrazioni che, ricordando la conquista ed il massacro perpetrato nei confronti degli amerindi, ci hanno costretto a fare i conti con il nostro passato e contemporaneamente ha dato voce almeno in parte agli sconfitti di quel continente, a quegli abitanti dell’america del Sud e del Nord che per troppo tempo sono stati esclusi dalla storia.
Capacità di essere uomini liberi, senso della storia e sensibilità al nuovo ed al diverso che apre al futuro. Questi sono i contenuti che ho letto negli anni nel messaggio di Balducci.
Giuseppe Grazzini
Pontassieve, 25 aprile 1994
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