Politica culturale; cultura politica; queste sono associazioni accettate che modificano ed ampliano il significato dei termini coinvolti. Se però parliamo di politica demografica, in genere ci ritroviamo senza interlocutore; è una sorta di tema tabù. Probabilmente a causa dei trascorsi storici non certo felici di questo tipo di politica, a partire dai milioni di baionette di mussoliniana memoria fino ai campi di concentramento tedeschi. Questi ultimi spesso evocati anche da certe campagne di sterilizzazione di massa perseguite in alcuni paesi; nel migliore dei casi si rammenta il ferreo controllo sociale esercitato in Cina nella campagna per il figlio unico.
Se poi ci si azzarda a parlare di necessità della politica demografica, sicuramente si perdono molte simpatie. Pure non si può coniugare il rispetto dell’ambiente, su cui tutti dicono di essere d’accordo, l’idea delle risorse limitate, il rispetto della vita con l’assenza di politica demografica, se si intende con questo termine una politica che cerchi di gestire il rapporto tra popolazione e territorio. Adottando questo punto di vista la politica demografica non riguarda più i soli paesi del terzo mondo, ma anche i paesi industrializzati, con tassi di natalità in continua diminuzione, ma la cui popolazione continua ancora a crescere, sia pur lentamente. Li riguarda non per gli aspetti spesso toccati sui giornali relativi all’invecchiamento della popolazione e quindi per le conseguenze che questo comporta in termini di assistenza agli anziani, di pagamento delle pensioni, bensì perché essi sono non solo sovrappopolati rispetto alla maggior parte del mondo, ma soprattutto perché lo sono in rapporto alle risorse che utilizzano e che sono superiori a quelle fornibili dal territorio da loro occupato.
Spesso si parla di “carrying capacity”, di capacità di sostentamento da parte dei paesi e dei terreni agricoli, anche se di rado si fanno quantificazioni e solo oggi ci si pone il problema della sostenibilità in senso ampio, considerando la necessità di salvaguardare anche ambienti non occupati dall’uomo, sempre nell’ottica della sopravvivenza dell’uomo stesso.
Proprio in questo periodo il rapporto dell’organizzazione dell’ONU sulla popolazione, UNPFA, è stato riportato con una certa evidenza su di una parte della stampa (Repubblica 15 e 16 maggio), anche se il taglio degli articoli tendeva sopratutto a far pesare il comportamento dei paesi in via di sviluppo. Taglio opposto hanno invece le posizioni riportate su Nuova Ecologia di maggio, in un articolo che parla addirittura di “imbroglio demografico”. Dagli interventi di Susan George, direttrice del Transnational Institute di Amsterdam, di Mary Allegretti, presidente dell’Istituto per gli studi Amazzonici del Brasile e di Vandana Shiva, del Third World Network, si riceve soprattutto l’impressione di voler eludere il problema; non si può ragionare con l’idea che le malattie possano falcidiare la popolazione (George) o non tener conto che la desertificazione del Sahel è legata all’eccessivo ed errato sfruttamento del territorio (Shiva) o considerando solo la libertà di scelta per le donne (Allegretti) e neppure basandosi sul fatto che le risorse sono ingiustamente distribuite e che molti aspirano, anche culturalmente, ad un livello di vita ben diverso da quello occidentale.
Mi sembra che il problema demografico non sia legato solo a capire quante persone possano in assoluto vivere su di un territorio, ma anche al rapporto tra la velocità di crescita della popolazione e la disponibilità delle risorse. Il primo problema è relativo ai paesi sviluppati che devono chiedersi se possono mantenere certi livelli e modelli di vita senza rapinare le risorse altrui.
Il secondo compete ai paesi in via di sviluppo, particolarmente a quelli del sud dell’Asia ed ai paesi africani.
Per molti di questi il tasso di crescita è intorno al 3% annuo, che significa raddoppiare la popolazione in 24 anni; la popolazione cittadina cresce poi a ritmi superiori, dato che le campagne sono spesso già sature, almeno per le tecniche agricole che vi sono praticate.
Con tassi che si aggirano sul 10%, la popolazione raddoppia in circa 8 anni e non si tratta purtroppo di qualche migliaio di persone. Senza considerare i casi estremi di Città del Messico o del Cairo, che sono intorno ai 15 milioni di abitanti, molte città già oggi sono tra i 500000 e il milione, quindi occorre, in simili stretti tempi, raddoppiare città come Firenze, Palermo o Torino.
Simili prospettive terrorizzerebbero ogni nostro amministratore.
Ma che pensare quando poi la maggior parte delle città esistenti è priva di fogne e di acqua potabile? quali condizioni sanitarie si prospettano?
Dove trovare risorse materiali ed umane per queste costruzioni che non producono cibo?
Un altro aspetto da non dimenticare è che queste velocità di crescita comportano una struttura per età della popolazione fortemente squilibrata verso i giovani, anzi i giovanissimi dato che in molti paesi la quota in età inferiore ai quindici anni si aggira intorno al 40% della popolazione[1,2]. E’ possibile pensare ad un piano di alfabetizzazione, all’istruzione di metà della popolazione, contemporaneamente accrescendo la produzione di cibo, di beni essenziali, migliorando le condizioni sanitarie, senza distruggere l’ambiente che è l’unica garanzia di futuro, del loro e del nostro futuro?
Occorre prendere coscienza che il problema è la velocità della crescita, non tanto pensando alla “bomba demografica”, quanto riflettendo sulla reale capacità di affrontare i problemi che essa pone.
Quando personalità religiose dicono che questo problema non esiste, mi chiedo spesso quale tipo di vita esse prospettano alle persone; mi chiedo se pensano che comunque le sofferenze porteranno più anime in Paradiso, oppure se credono che le sofferenze non ci saranno, dimenticando che a chi chiede miracoli è stato detto “non tentare il Signore Dio tuo”.
Credo che amare significhi anche desiderare un futuro di pace per coloro che vivono e vivranno sul pianeta, ma la pace sarà tanto più difficile quanto più veloce sarà la crescita demografica.
Cominciamo ad accorgercene anche nella ricca Europa con i problemi dell’immigrazione che mettono in discussione, tra le altre cose, anche le nostre culture.
Ma anche gli altri dovranno modificare le loro culture, anche se non emigreranno, e tanto più velocemente quanto più rapidamente il numero aumenterà.
Molti sono d’accordo sull’affermazione che le culture sono state per la specie umana l’equivalente della differenziazione biologica subita dalle altre specie animali; esse hanno permesso di adattarsi alle condizioni di vita più diverse, con una diffusione sul globo che trova concorrenza solo in alcuni insetti, senza richiedere forti specializzazioni fisiologiche, dato che le differenze tra le razze umane sono molto limitate.
Le culture che si trovano oggi ad affrontare la crescita maggiore escono da un passato di situazione stazionaria, legato all’agricoltura e spesso alla pastorizia; culture basate sulla conservazione dei costumi, sia sociali che tecnologici, tramandati dagli avi. Ciò che va fatto è quello che “sempre” è stato fatto; la giustificazione delle azioni è nella tradizione.
Culture di questo tipo esistevano ed esistono anche in Europa, ma sono occorsi circa quattro secoli per modificare quella dominante e portare la gente ad accettare facilmente ciò che è nuovo, fino al punto di seguire anche troppo la “moda” e bruciare tutto nella ricerca ossessiva della novità.
Anche in Europa la crescita della popolazione è stata rapida nel secolo scorso ed in questo, malgrado la fortissima emigrazione in continenti molto più grandi e poco popolati, o resi tali dagli europei stessi, malgrado l’infanticidio praticato largamente[3], malgrado il lavoro notturno e diurno dei bambini dai 5(cinque) anni in su[4], malgrado le guerre che hanno insanguinato il continente ed il mondo.
E tuttavia mai sono stati raggiunti tali ritmi di crescita che non accennano a calare, anche se il tasso di natalità tende in parte a diminuire.
Il tasso d’incremento europeo raggiunse l’1,2% nel 1900, calò bruscamente con le due guerre e tornò al precedente valore nel “baby boom” dopo la seconda guerra mondiale, per cominciare poi il calo che lo ha portato agli attuali valori, al limite della sostituzione.
Sono quindici anni che il tasso d’incremento dei paesi in via di sviluppo è intorno al 2,5% [1,5].
Nella storia dell’umanità mai si è verificata una simile situazione.
L’unico paragone può esser fatto nel senso opposto, quando la popolazione è diminuita, come dal 1346 al 1349, quando la peste spazzò via circa la metà della popolazione europea e forse non solo europea; oppure quando si scoprì l’America importandovi germi patogeni che ridussero la popolazione ad un decimo in un secolo [6].
La crescita invece è sempre avvenuta lentamente.
Trovo quindi fuorvianti affermazioni secondo cui l’esperienza storica mostra che il tasso di crescita incomincia a decrescere solo dopo che è avvenuto lo sviluppo economico e sociale. Il problema è se e come tale sviluppo potrà avvenire.
Occorre ricordare inoltre che i fenomeni demografici hanno evoluzioni molto lente, tanto che anche l’Italia, che ha oggi un tasso di natalità bassissimo, inferiore a quello di sostituzione, vedrà aumentare la propria popolazione sin dopo il duemila, anche prescindendo da fenomeni di immigrazione.
Quindi anche drastici tagli al tasso di natalità non bloccheranno la crescita della popolazione per un altro mezzo secolo; nessuna bomba ha effetti così prolungati.
I paesi “occidentali” hanno ormai una cultura portata al cambiamento, ma già i paesi dell’est europeo, dopo gli storici mutamenti del 1989, mostrano segni pesanti di culture vecchie, statiche, incancrenite nelle divisioni etniche e nei nazionalismi.
Ci troveremo perciò nei prossimi anni di fronte alla sfida delle vecchie culture dell’est e del sud, e tutti dovremo cambiare. Non credo che sia mai esistito, né che possa esistere il mitico “melting pot” americano; dovremo inventare forme per stare insieme ove siano accettate reciprocamente le diversità, ma tutte le culture per convivere dovranno modificarsi e contribuire al rispetto delle altre. Solo avendo coscienza di ciò potremo evitare le guerre razziali, religiose e per bande che già insanguinano gli Stati Uniti ed il sub-continente Indiano; solo con l’aiuto reciproco potremo evitare nuove “pesti”.
La crescita demografica è veramente paragonabile solo alla “Bomba”; così come Hiroshima ha costretto gli strateghi ed il mondo a ripensare la guerra, così dovremo elaborare una nuova cultura per vivere.
E’ inconcepibile che la demografia sia sempre entrata in politica sopratutto per i timori sul declino demografico, timori di popolazioni in crescita![7]
Ma il timore è proporzionale al numero degli altri, non alla situazione concreta. Nel 1984 il Parlamento Europeo ha avuto il coraggio di approvare una risoluzione (N. C 127/78 14 maggio 1984), che invitava i governi a prendere provvedimenti per innalzare il tasso di natalità onde evitare che la popolazione dell’Europa dei Dieci incida “solo per il 4,5% sul totale della popolazione mondiale nel 2000 e solo per il 2,3% nel 2025, contro l’8,8% del 1950”. Se si riflette che tali paesi hanno una superficie che è circa l’1% delle terre emerse, cioè del mondo, queste preoccupazioni paiono assurde. Riferendosi al territorio meglio sarebbe considerare che il numero di abitanti per unità di superficie è in quei paesi tra i più alti del mondo, con il record di 350 ab/km2 dell’Olanda.
Collegare la politica demografica all’idea di equilibrio territoriale ed ambientale, implica che gli interventi di tale politica non possano più limitarsi al controllo delle nascite od a tasse ed incentivi per le famiglie; anche campi che sembrano lontani, come la politica della casa e quella sanitaria, vi confluiscono.
Ciò è tanto più vero se pensiamo ai paesi del terzo mondo, ove conciliare sviluppo e politica demografica significherà impegnarsi sia in “programmi di pianificazione familiare”, sia e soprattutto in programmi per la sicurezza sociale, l’emancipazione della donna, un servizio sanitario efficiente, l’istruzione diffusa, agevolazioni ed incentivi per una agricoltura ed un industria sicure e pulite.
Solo questi tipi di interventi permetteranno che i figli non siano visti come “il bastone della vecchiaia” e non solo di quella, con le ovvie conseguenze.
Non credo tuttavia che società che riescano ad applicare programmi di mutamento sociale come quelli suaccennati, possano mantenere inalterate le culture odierne; dovranno elaborarne di nuove e dovremo aiutarle a farlo rifuggendo, noi e loro, da tentazioni autoritarie e razziste.
(Testimonianze 1990, 326,p.48)
Riferimenti bibliografici
1) P. Demeny, Le Scienze, n.79, marzo 1975.
2) G. Calchi Novati, Nord/Sud, E.C.P., Firenze 1987.
3) W. L. Langer, Le Scienze, n.45, maggio 1972.
4) R. Morandi, Storia della grande industria in Italia, Einaudi, Torino 1966.
5) N. Keyfitz, Le Scienze, n.255, novembre 1989.
6) J. Ruffiè e J. C. Sournia, Le epidemie della storia, Editori Riuniti, Roma 1985.
7) M. S. Teitelbaum e J. M. Winter, La paura del declino demografico, Il Mulino, Bologna 1987.
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